II
Mi voltai.
Vidi le nostre tracce nella distesa bianca: la scia di un serpente sulla sabbia. Accarezzavamo la superficie spezzandola in due: era l’acqua che entra nella farina, quando si fa pane. Mi prese per i fianchi, come era solito fare. Sentii la sua mano esperta scivolare su di me e poi dirigermi forte. Il sangue mi salì alla testa, come tutte le volte che sento il calore delle sue dita. Non diceva nulla, mi guidava in un gioco di bambini. Tutto era nei suoi gesti, precisi. A volte incerti.
A tratti si fermava e rimaneva in silenzio, a lungo. Immobile. Se trovava le parole, non le diceva. Rimanevano chiuse dentro un gesto, o qualche altro passo. Non comprendevo e non mi importava. Mi bastava stargli accanto e percepire il calore della sua mano, che mi reggeva senza lasciarmi cadere. Ecco di cosa avevo paura. Cadere.
Godevo quando andavamo senza soste, come se avessimo una meta ben precisa. Ma entrambi sapevamo che la meta era il nostro andare, nella distesa immacolata, scrivendo i nostri passi sulla superficie e scoprendo, solo alla fine, il risultato di ciò che avevamo fatto, come se ne fosse la cifra. Eravamo uniti come nella foga gli amanti. Strade erano i nostri passi. Trasformavamo i muscoli in anima.
Poi però cambiava improvvisamente percorso. Ma come faceva a sapere?
Mi amava ma non me lo aveva mai detto. Non aveva voluto. Forse per timidezza o forse per quella consuetudine così lunga, che era sempre stata un’amicizia, e sembrava volgare, quasi spudorato, divenisse qualcos’altro. Ero stanca e ci fermavamo a riprendere fiato. Un male segreto mi svuotava. Lo sapeva, ma fingeva distacco.
Lo odiavo. Mi lasciava lì sola per minuti, ore, a volte giorni, come se non contassi nulla e poi mi accompagnava in una nuova passeggiata, riprendendo il discorso esattamente al punto in cui lo avevamo lasciato.
Un giorno esplosi: perché lo fai?
Scrollò le spalle e disse: Mi riesce bene!
Mi voltai.
Vidi le nostre tracce nella distesa bianca: la scia di un serpente sulla sabbia. Accarezzavamo la superficie spezzandola in due: era l’acqua che entra nella farina, quando si fa pane. Mi prese per i fianchi, come era solito fare. Sentii la sua mano esperta scivolare su di me e poi dirigermi forte. Il sangue mi salì alla testa, come tutte le volte che sento il calore delle sue dita. Non diceva nulla, mi guidava in un gioco di bambini. Tutto era nei suoi gesti, precisi. A volte incerti.
A tratti si fermava e rimaneva in silenzio, a lungo. Immobile. Se trovava le parole, non le diceva. Rimanevano chiuse dentro un gesto, o qualche altro passo. Non comprendevo e non mi importava. Mi bastava stargli accanto e percepire il calore della sua mano, che mi reggeva senza lasciarmi cadere. Ecco di cosa avevo paura. Cadere.
Godevo quando andavamo senza soste, come se avessimo una meta ben precisa. Ma entrambi sapevamo che la meta era il nostro andare, nella distesa immacolata, scrivendo i nostri passi sulla superficie e scoprendo, solo alla fine, il risultato di ciò che avevamo fatto, come se ne fosse la cifra. Eravamo uniti come nella foga gli amanti. Strade erano i nostri passi. Trasformavamo i muscoli in anima.
Poi però cambiava improvvisamente percorso. Ma come faceva a sapere?
Mi amava ma non me lo aveva mai detto. Non aveva voluto. Forse per timidezza o forse per quella consuetudine così lunga, che era sempre stata un’amicizia, e sembrava volgare, quasi spudorato, divenisse qualcos’altro. Ero stanca e ci fermavamo a riprendere fiato. Un male segreto mi svuotava. Lo sapeva, ma fingeva distacco.
Lo odiavo. Mi lasciava lì sola per minuti, ore, a volte giorni, come se non contassi nulla e poi mi accompagnava in una nuova passeggiata, riprendendo il discorso esattamente al punto in cui lo avevamo lasciato.
Un giorno esplosi: perché lo fai?
Scrollò le spalle e disse: Mi riesce bene!
(fine seconda puntata)
2 commenti:
e se fosse la immaginazione?
Come si legge nell'ultima parte del racconto si tratta di una penna. Ma è chiaro che senza immaginazione non c'è amore. E senza amore la penna resta inerte...
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